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AFRICO CUORE DELL’ASPROMONTE

di Cosimo SFRAMELI - Venerdi 05/12/2008


Non è vero che Africo sia stato sempre dimenticato dagli uomini. I primi che se ne occuparono, sia pure per incidenza, furono i giornalisti che salirono fin lì nel 1900, sulle tracce del brigante d’Aspromonte.
Giuseppe Musolino aveva cercato rifugio su quelle montagne e viveva in una grotta, alle porte del paese. Non si riusciva a prenderlo e fu allora che si installò ad Africo un ufficio telegrafico perché le segnalazioni giungessero rapidamente a Bova, dove c’era un importante comando dell’Arma. 

Un giorno i Carabinieri riuscirono a corrompere uno dei picciotti di Musolino. Lo convinsero a portare al suo capo un piatto di maccheroni conditi col sugo e con un forte sonnifero. Il condimento era in quantità sufficiente da assicurare un sonno di piombo fino all’arrivo dei Carabinieri. Musolino, invece, abituato alla minestra di fave, si insospettì davanti alla pasta ed obbligò l’amico a dividerla con lui. Alla fine del pasto, entrambi facevano fatica a tenere gli occhi aperti. Il sedativo aveva fatto effetto ma Musolino continuava a ragionare: ebbe la forza di vendicarsi del traditore con due fucilate e di scappare al sicuro prima che sopraggiungessero i Carabinieri.
Quel drammatico episodio richiamò i giornalisti sull’Aspromonte che descrissero il paese e le miserabili condizioni di vita dei suoi abitanti. Ma erano tempi in cui certe cose non potevano fare impressione più di tanto. Così non ne derivò nulla di concreto.

Aspromonte
Quando sarà arrestato, dopo anni ancora, a Giuseppe Musolino saranno travati attaccati al collo alcuni scapolari con le immagini di San Giuseppe e della Madonna di Polsi e un biglietto con la scritta: “Caro fratello, vi rimetto 25 lire per il voto che ho fatto alla Madonna di Polsi. Almeno che non dobbiamo disobbligarci con gli amici faremo il possibile con i nostri santi”. Sull’Aspromonte, religiosità popolare e ‘ndrangheta avevano profonde connessioni. 

Venticinque anni dopo, la Curia di Reggio Calabria mandò un frate a sostituire il parroco di Africo che aveva sorpreso la sorella in intimità con un corteggiatore e l’aveva uccisa sparandole tre colpi di pistola, a bruciapelo. Quel frate, ricordato ancora oggi con profondo rimpianto, prese a cuore la situazione del paese e, poiché aveva il temperamento adatto a questo genere di cose, riuscì ad agitare le acque attorno al “caso” di Africo. Le sue relazioni arrivarono nelle mani degli uomini politici più potenti ed influenti, giunsero persino ai Savoia, provocando negli anni continui sconvolgimenti, studi, avvicendamenti.
Un ministro arrivò a Bova, da dove si sarebbe dovuto spostare fino ad Africo per un sopralluogo, ma non si sentì di affrontare le sei ore di mulo su quel viottolo e diede l’ordine all’autista di tornare indietro.
Maria Josè si recò due volte a Reggio per salire ad Africo ma la spedizione fu rimandata ad un periodo più favorevole. Nondimeno, stanziarono qualche milione di lire per costruire una strada. Ma i lavori non ebbero mai inizio. Intanto, si verificò una frana che minacciò di travolgere l’intero abitato.
Si decise allora, per la determinazione del frate, di trasferire il paese in blocco, in una località vicina, più salubre e riparata. Tutto era stato studiato ed approvato. Su un altipiano boscoso dove c’era terreno più fertile ed acqua sufficiente sarebbe sorto un paese modello ed il vecchio villaggio, con tutte le sue brutture, sarebbe stato fatto saltare con la dinamite. Era la vigilia dell’inizio dei lavori quando, per l’opposizione dei piccoli proprietari e l’inerzia degli altri, il progetto si arenò. Allora il frate non resse più: gettò la tonaca, si trasferì a Roma, prese moglie ed ebbe tre figli. Gli africesi continuarono a mandargli ambasciate ma ormai il loro ex parroco aveva tante altre cose cui pensare e doveva accontentarsi solo di compiangerli.